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lunedì 28 maggio 2012

Modica: Ricordo di Gigi Olivari a 55 anni dalla morte. Corona d’allora alla stele Cerimonia rievocativa promossa dal CTCM e dall’Assessorato allo Sport per il 30 maggio





La cerimonia rievocativa del 55° anno della morte di
Gigi Olivari, il pilota genovese tragicamente morto a bordo della sua Maserati A6GCS nel corso della XVII edizione del giro di Sicilia a causa di un incidente sulla Modica – Ispica, si terrà mercoledì 30 maggio alle ore 10.0o nella sede del museo del cioccolato in piazza 8 Marzo a San Francesco La Cava.
Nella piazza saranno sistemate 30 d’auto da corsa d’epoca comprese le Maserati 2000 – 333. La rievocazione promossa dal Consorzio di tutela del cioccolato artigianale di Modica e dall’assessorato allo Sport dell’Ente prevede la commemorazione di Gigi Olivari da parte del figlio, Mario, a cui seguiranno l’ illustrazione di una documentazione, compresa video, delle gesta sportive del pilota che trovò a cinquant’anni tragica morte nel territorio della città.
Questi alcuni stralci di report che raccontano di quel tragico momento:
“… La carreggiata della strada, come tutte quelle del tempo, era caratterizzata anche dalla classica sezione a schiena d’asino, fiancheggiata da due banchine pavimentate con selci di pietra calcarea, già allora consunti ed estremamente viscidi. La pioggia li trasformava con tutto il resto in un percorso estremamente insidioso. Allora si raccomandava di stare attenti a “u sciddicu”. Muretti di pietra a secco completavano la “pista.
Olivari percorse la retta a tutta velocità. Si trovò presto di fronte alla prima curva a sinistra. Probabilmente non la valutò o non la ricordò nella sua esattezza configurazione. Forse ingannato anche dalla pioggia non ne percepì la vera ampiezza. Gigi tentò di inserire la macchina nella migliore traiettoria, (la velocità era molto elevata, frenò, forse fece in tempo a scalare una marcia), ma la bella Maserati scartò a sinistra, investì un paracarro. Olivari ne perdette il controllo. Come impazzita la bella Maserati puntò contro il muro di pietra all’esterno e contro di esso si schiantò. Quindi si impennò in aria e ricadde capovolta sull’asfalto. Immediate le fiamme l’avvolsero in un rogo impenetrabile. Inutile ogni tentativo di recare soccorso. In quei concitati istanti non mancarono gli slanci generosi di spettatori che avrebbero voluto liberare Olivari. Non ci fu nulla da fare…” Poi dalla Cinconvallazione Ortisiana si muoverà un corteo lungo la Via Torre Cannata sino alla stele sulla Modica – Ispica, sistemata e ripulita, dedicata al pilota genovese, ma sardo di adozione, dove sarà posta una corona d’alloro dell’amministrazione comunale.
“E’ un pezzo di storia sportiva, pur tragica, che intendiamo, di concerto con il Consorzio del cioccolato, recuperare, commenta Tato Cavallino assessore allo sport, a beneficio di quanti non c’erano e di quanti non hanno più memoria di una cronaca sportiva che ribaltò il nome della città nelle cronache sportive nazionali del tempo. Ci è sembrato giusto a 55 anni di quella tragedia fare riemergere dall’oblio quell’avvenimento che intendiamo raccontare alle giovani generazioni perché attraverso quell’episodio tramando un significativo frammento storico della nostra città.”


L'Harley dello tsunami diventa un simbolo a Milwaukee



8.000 km sono un viaggio di tutto rispetto per una moto, soprattutto se invece che sull'asfalto sono fatti tra le onde dell'Oceano Pacifico. La storia dell'Harley-Davidson FXSTB Softail Night Train ha fatto il giro di tutto il mondo, stupendo e commuovendo ogni motociclista. Ora però la moto di Milwaukee tornerà a casa, non in Giappone, ma proprio negli States, nel museo Harley-Davidson. E' stato il proprietario a volere che la sua moto non gli fosse restituita, ma che fosse esposta per diventare un simbolo della tragedia che ha colpito il Giappone. 




Ikuo Yokoyama, 29 anni, alla fine di aprile è stato informato che la sua moto era stata ritrovata in Canada. Era arenata in una spiaggia ancora dentro al piccolo box dove lui l'aveva parcheggiata dall'altra parte dell'oceano. Ikuo nello tsunami ha perso la casa, è stato costretto a trasferirsi in un'altra regione del Giappone e ha dovuto ricominciare una nuova vita. La sua Harley era un problema irrilevante. Poi, da un giorno all'altro, la moto era su tutti i giornali, migliaia di harleysti si offrivano di aiutarlo economicamente a ripararla e poter ritornare in sella. Anche la Casa di Milwaukee si era offerta di restaurarla e rimandargliela, ma Ikuo ha preferito che la sua moto rimanesse come l'oceano l'aveva cambiata. Ha chiesto solo una cosa: che venisse lasciata come è stata trovata, che non venissero cancellati i segni dello tsunami, anzi che diventasse un simbolo, e la memoria nel museo Harley-Davidson di ciò che era successo nel suo Paese l'11 marzo 2011, giorno in cui persero la vita più di 15 mila persone.
«E' incredibile che la mia Harley sia stata ritrovata in Canada dopo un anno -ha detto- voglio ringraziare Peter che l'ha trovata, mi dispiace non potergli far visita per esprimergli di persona la mia gratitudine. Non appena le cose andranno meglio volerò in America per farlo e per rivedere la mia Harley».

mercoledì 23 maggio 2012

Rock in love di Laura Gramuglia


di Elisabetta Malvagna
(ARCANA, PP. 189, 16 EURO). Il rock e' single per definizione: cosi' Linus nella prefazione di questo libro di Laura Gramuglia, una delle voci di Radio Deejay. Ma, come si sa, l'eccezione conferma la regola. Si parte cosi' con la storia, molto amara, del re del Rock e della sua Priscilla. Lei resta incinta appena il matrimonio viene consumato e nove mesi diventa mamma di Lisa Marie. Elvis, racconta la Gramuglia, ''si dichiara impossibilitato ad adempiere i propri doveri coniugali con una donna che ha avuto un figlio''. E' l'inizio della fine della loro storia d'amore, con un divorzio avvenuto quando lei e' ancora giovane e lui invece ''e' esausto, svuotato: ha appena perso la donna della sua vita''.

In questo appassionante volumetto pubblicato da Arcana non manca ovviamente la storia tra Bob Dylan e Joan Baez. Quando si incontrano, il 10 aprile del 1961 in un locale del Greenwich Village, lei e' gia' un'artista affermata. Sono due ventenni affascinanti, entrambi esili e timidi, con una passione sconfinata per la musica. Si mettono insieme due anni dopo.

Cominciano cosi' una storia che in termini di popolarita' giovera' piu' al menestrello del Minnesota. Ma, mentre Joan dedica sempre piu' tempo a questioni sociali e politiche, Bob matura la decisione di non prendere piu' parte a manifestazioni e comizi. Lentamente, le differenze inconciliabili fra i due si fanno sempre piu' nette. ''Ora che Bob ha il suo pubblico di quello caritatevole e contegnoso della Baez non sa piu' che farsene'', scrive l'autrice. Nell'estate del 1965 la relazione naufraga. Dylan si libera della compagna umiliandola pubblicamente nell'ultimo tour inglese. E non perde tempo: la sua nuova donna, Sara Lownds, e' gia' in attesa di un figlio.

Una delle prime storie d'amore del rock&roll e' quella tra Mick Jagger e Marianne Faithfull, mentre la coppia rock per eccellenza e' quella formata da Paul McCartney e Linda Eastman, che ''battono tutti gli altri per qualita', durata e purezza''.

E Yoko Ono&John Lennon? Non c'e' dubbio: e' la storia d'amore rock piu' importante del secolo. La piu' romantica e' invece quella nata tra Joni Mitchell e Graham Nash. Joni e' una donna difficile: per lei la musica viene prima di tutto, piu' della famiglia, del marito e della figlia. Siamo nel 1968 e dopo aver vissuto con David Crosby, Joni apre la sua porta a Nash. Nel giorno in cui decidono di lasciarsi, Nash scrive Simple man, per dare la sua versione dei fatti. I brani del mitico album della Mitchell, Blue, sono in bilico tra il vecchio amore, e il nuovo: James Taylor. In compenso Graham scappa con una ragazza amata da Stephen Stills.

Poi, dopo una temporanea separazione, l'ultimo supergruppo degli anni Sessanta si riunisce. E riparte proprio dai brani di Joni. ''Crosby, Stills, Nash & Young e Joni e James Taylor. Non senza sofferenza, il rock'n'roll sembra avere la meglio su tutto'', conclude l'autrice. (ANSA).

giovedì 26 gennaio 2012

Quando zio Giovanni ha venduto la 500 per un 128



Scicli - Avevo circa sei anni e zio Giovanni vendette la Fiat 500 per comprare un 128. Piansi, come piangono i bambini.

Cosa fa di un’auto piccola, di un’utilitaria, un modello di successo?

La versatilità, l’economicità, i costi di manutenzione.

No, forse nessuno di questi pregi fa di un’auto piccola un’auto di successo.

I designer hanno saccheggiato le nuove acquisizioni degli studiosi del comportamento, scoprendo che un’auto piccola piace se ha un’espressività.

Se somiglia a un cucciolo, di essere umano –un bambino- o di animale: un gatto, un cane.

E così la Fiat 500, la 2cv Citroen, la Maggiolino. Perché l’uomo sviluppa affettività anche verso questi oggetti inanimati, con cui si instaura un rapporto di complicità, di intimità, di amore.

Un mese fa la Volkswagen ha presentato il secondo remake del Maggiolino, dopo quello della fine degli anni novanta, che già ricalcava le forme della macchina più venduta al mondo.

Segno che dall’intuizione dell’auto come oggetto d’affetto non si esce, neanche nell’epoca del Gps e del Tom Tom.

Giuseppe Savà

martedì 17 gennaio 2012

Segreti i n fondo al mare: ci sono anche le auto d'epoca

Il recente naufragio della Costa Concordia riporta alla memoria tante altre terribili storie di navi crociera affondate. 




Stranamente, queste storie hanno spesso anche attinenza con il mondo delle auto d'epoca. Non a caso, infatti, sulle navi crociera più belle e più ricche venivano anche caricate autovetture di raro pregio. La storia che ritorna alla memodia è quella della Ghia Chrysler, andata a fondo con l'Andrea Doria.

L'Andrea Doia andò a fondo dopo una collisione con il rompighiaccio Stockholm nell'Atlantico settentrionale. A bordo c'erano tantissimi passeggeri che partecipavano a quella che era considerata una crociera di lusso su una delle più belle navi mai costruite. E nelle stive dell'Adrea Doria c'era (e c'è ancora) un'auto stupenda, vero gioiello dell'eleganza e della tecnica: una Chrysler carrozzata Ghia.Un'auto splendida in esemplare unico.

La Ghia Norsemann era stata costruita in 15 mesi nello stabilimento Ghia di Torino. Vettura spettacolare commissionata dalla Chrysler destinata a diventare la vettura piu' automatica del mondo. Le caratteristiche strutturali e costruttive erano di altissimo livello, non esistevano piantoni e montanti a sostegno del tetto. L'abitacolo risultava essere completamente a giorno pur assicurando la resistenza e robustezza necessaria . Il lunotto posteriore era a scomparsa nell'intercapedine del tetto, la coda slanciata con cromature spettacolari. La carrozzeria era completamente chiusa anche nella parte inferiore per aumentare l'aereodinamicità dell'insieme, anticipando di molto gli studi attuali. Molti gli automatismi tra i quali spiccavano i fari ed il lunotto a scomparsa il tappo della benzina che fuoriusciva a comandoed i sedili con spostamento elettrocomandato.
Gli interni erano semplicemente spettacolari, i sedili parzialmente rivestiti in pelle con inserti nei pannelli in lega di alluminio anodizzato. Sul cruscotto punteggiato dai vari bottoni e manopole cromate dei vari meccanismi ed automatismi spiccavano i due grandi quadranti circolari quasi sospesi alla struttura. Il tunnel centrale ospitava la trasmissione la radio e una lampada di illuminazione a luce diffusa. Costruita in esemplare unico questa vettura non venne mai ricostruita, 15 mesi di lavoro ed ingegno sono racchiusi in fondo l'oceano chiusi nelle stive di un'altro splendido lavoro dell'industria italiana l'Andrea Doria.

giovedì 15 dicembre 2011

1965-1966 - La nascita del nuovo rock

Riccardo Bertoncelli (con C. Rizzi e F. Zanetti)
1965-1966 - La nascita del nuovo rock
(Giunti, 287 pagine, 19,50 €)



Ecco il prequel a "Sgt. Pepper - La vera storia" e a "1969", i due volumi precedenti che Riccardo Bertoncelli e Giunti hanno dedicato agli "anni d'oro del rock": con un impianto collaudato - cronologia sintetica, saggi dedicati ai principali protagonisti/eventi musicali del periodo, schede sui dischi più rappresentativi degli "altri" - e le garanzie offerte da una squadra rodatissima (Bertoncelli si avvale dei contributi specialistici del collaboratore storico Cesare Rizzi e del direttore di Rockol Franco Zanetti), "1965-1966" farà gola a chi ama le storie e la Storia del rock perché racconta di anni davvero speciali e gloriosi agli albori della rivoluzione culturale giovanile (cui viene scelto come preludio la profetica "A change is gonna come" di Sam Cooke). Tanto che nelle sue 287, forzatamente sintetiche pagine, gli autori devono fare miracoli per acchiappare per la coda i frenetici, tumultuosi avvenimenti di un periodo febbrile, agitato, dove un mese sembra un anno o più per come le cose mutano, cambiano forma, stile, linguaggio e significato.
Beatles e Dylan sono naturalmente al centro della scena, fotografati in un momento chiave delle rispettive parabole artistiche: il passaggio alla maturità per i Fab Four (dagli sbarazzini film avant-pop di Richard Lester ai formidabili "Rubber soul" e "Revolver"), l'abiura del folk di protesta in favore dell'elettrificazione e della poesia visionaria per il bardo di Duluth ("Bringing it all back home", "Highway 61 Revisited" e "Blonde on Blonde", Newport e la scomparsa dalle scene dopo l'incidente motociclistico). Il resto è un resoconto teso, a volte asciutto altre pittoresco, di intrepide avventure spesso avvolte nella leggenda, sulle due coste degli Stati Uniti e dall'altra parte dell'Atlantico. I Byrds e i Beach Boys, i primi semi dell'estate dell'amore a San Francisco e le prime geniali follie di Frank Zappa, i Velvet Underground pilotati da Andy Warhol e il radicalismo dei Fugs, gli Who e gli Stones. Ma anche il jazz rivoluzionario di John Coltrane, la cui "ferocia velocità precisione invenzione" ne fanno un eroe imprescindibile di quegli anni, e i dimenticati "one hit wonder" del garage rock americano, progenitori dei punk rockers anni Settanta.
I lettori più smaliziati e già addentro alle vicende rock apprezzeranno soprattutto le pagine dedicate alla provincia dell'impero, con i preziosi souvenir dall'unico tour italiano dei Beatles (peccato però il "misprint" ripetuto del nome dell'impresario Leo Wachter..), il Dylan tiepidamente accolto e un po' frainteso dalle riviste teen e dagli artisti nostrani e una bella appendice dedicata al beat, anzi bitt, italiano. E poi le minuzie (i segreti delle copertine di "Bringing it all back home" e del "banana album" dei Velvet, i dietro le quinte della famigerata "butcher cover" beatlesiana), le memorabilia (impagabili le locandine che presentano i Nomadi alternativamente come "i Beatles italiani" e "i Rolling Stones italiani") e il ripescaggio di storici contributi firmati Phil Ochs, Greil Marcus e Ralph J. Gleason, Richard Honigman e Richard Barnes (in diretta rispettivamente da un "acid test" a Frisco e da un concerto degli Who al Railway Hotel di Londra), Jerry Hopkins e Richard Goldstein (in occasione della prima apparizione newyorkese di Zappa con le Mothers of Invention).

lunedì 29 agosto 2011

Rock a Venezia

di Bertrando Goio

Rock a Venezia? Perché no? La città, meta annuale di milioni di turisti che brulicano tra ponti, calli e chiese alla ricerca di un morso di magia, è anche il luogo dove si svolgono le storie di VeniceRock'n'Roll, il nuovo libro di Paolo Ganz, maestro indiscusso del blues italiano. Armonicista di grande talento, autore di metodi musicali che hanno fatto storia, il musicista veneziano è alla sua terza fatica di narratore, dopo il successo di Nel Nome delBlues e Calle dei Bombardieri. Il nuovo libro, organizzato per racconti come i due precedenti, narra le vicende dell'autore che, appena ragazzo, coltivava i sogni di gloria attraverso la musica americana che negli anni '60 stuzzicava ed esaltava la fantasia di tanti giovani squattrinati musicisti (oggi non è molto diverso: i sogni abbondano, un po' meno i quattrini!) proiettandoli verso tentativi più o meno riusciti di far conoscere il loro talento. Lo sfondo è il piccolo mondo, un po' chiuso e ancora un po' arcaico della Laguna, dove questi simpatici musicanti scapestrati si dannavano l'anima in cerca di strumenti a poco prezzo, di posti dove provare e quindi di palchi su cui mostrarsi. La musica è il grande sogno in cuiPaolo Ganz ci proietta attraverso le pagine diVenice Rock'n'Roll, con una verve e una freschezza senza pari. Leggendo le sue “bluesadventures” sembra di essere proiettati nei posti descritti, in mezzo alla gente e si respira quell'aria di salmastro misto a speranza che invadeva prepotentemente i sogni di questi adolescenti che vedevano in una chitarra la chiave per aprire le porte del mondo. Sale prova improvvisate, batterie costruite con i fustini di detersivo, amplificatori gracchianti e una voglia mista a terrore batticuore nel momento dell'esibizione. Aneddoti picareschi, il vino che sciacqua le gole, storie di quartiere... In breve, come recita il sottotitolo, “avventure e vigliaccate di pirati della Laguna”. E poi lo sfondo dei personaggi caratteristici e spesso improbabili, tra baristi, altri musicisti, amanti, puttane, vicini di casa... e un mondo che stava scomparendo. Già, un mondo che viveva ancora ma che ormai cedeva il passo alla modernità e al “nuovo”, aprendo altri orizzonti ma abbandonando la poesia. Nei racconti di Venice Rock'n'Roll si sente sempre, infatti, quella vena di malinconia e di rimpianto, tipica dello scrittore veneziano, che trova la trama vibrante dei suoi racconti pescandola nella tenerezza della memoria. Rimpianti? Nostalgie? A volte sì e a volte no: era un mondo che di certo ha permesso a tanti di coltivare sogni e a tanti di questi ha dato un aut-aut dicendo: o la vita o i tuoi sogni.

Paolo Ganz, Venice Rock'n'Roll, Fernandel Editore, 2011. Prezzo di copertina: 14 euro

mercoledì 29 giugno 2011

Nel ricordo di Tim Buckley


di Athos

Trentasei anni fa moriva Tim Buckley .
Per tracciare un degno profilo, ho dovuto "saccheggiare" le opinioni di altri, per mia inadeguata conoscenza (un libro letto ed un disco ascoltato non sono sufficienti per presentarlo degnamente).
Spero almeno che il mio "taglia e cuci" induca a qualche approfondimento l'eventuale lettore.


Tim Buckley e` il cantante piu` geniale della storia della musica rock, e forse dell'intera storia della musica.
Fu il primo dei moderni singer-songwriter, il primo ad alterare completamente il modello inventato da Bob Dylan, e rimane uno dei più grandi di tutti i tempi; ma definirlo "cantautore" e` limitativo.
Buckley era poco interessato ai testi (che infatti faceva scrivere al suo collaboratore Larry Beckett). L'arte di Buckley era tutta musicale, ed era un'arte d'atmosfera. Buckley usava tecniche straordinarie sia di canto sia di arrangiamento per scolpire atmosfere quasi cosmiche. Con la psichedelia la musica aveva cominciato un viaggio verso mondi diversi da quello terreno di cui si era sempre occupata la musica folk. Buckley continuò quel viaggio fino alla fine, scoprendo mondi sempre più lontani e sempre più insoliti.
Il percorso esteriore di questo "viaggiatore delle stelle" (come si definì lui stesso) era in parallelo un percorso interiore, alla ricerca di se stesso. La sua musica fu sempre una musica di scavo psicologico, anche quando si riallacciava alla canzone d'attualità del Greenwich Movement.Purtroppo quel percorso si concluse in un cimitero.
Buckley fu in gran parte estraneo ai subbugli delle due capitali della musica giovanile, distrattamente partecipe della protesta umanitaria di New York e vagamente imparentato con gli hippies di San Francisco. Buckley era certamente figlio della stessa era (tanto che di droghe morirà), ma la sua fu sempre una carriera molto isolata.
Il "sound" era il cuore della sua musica, e per ottenere quel sound Buckley navigò lo spazio del jazz e delle tradizioni orientali, oltre a quello del folk e del rock.
Come Captain Beefheart e Frank Zappa, anche Buckley apparteneva a un concetto alternativo di musica, un concetto che a Los Angeles non si espresse però mai sotto forma di movimento politico.
Buckley esibì fin dall'inizio una purezza artistica piuttosto rara nel mondo della musica rock.
L'elemento più originale dei suoi dischi era il canto, inizialmente ispirato da Fred Neil, che Buckley continuò a raffinare per anni.
Le sue conquiste in questo campo sono degne della musica d'avanguardia e certamente del jazz. Il suo canto era davvero un altro strumento, più simile alla tromba e al sassofono del jazz che al baritono della musica pop.
Come ebbe a dire il suo collaboratore Lee Underwood, Buckley fu per il canto ciò che Hendrix fu per la chitarra.
Le acrobazie del virtuoso erano soltanto una parte della storia. Gli esperimenti sul canto servivano a Buckley per comporre una narrazione altamente psicologica, fatta di allucinazioni e voli, dialoghi e silenzi, confessioni e deliri. Il suo gioco intricatissimo di gemiti, urla, guaiti, vocali estatiche, sussurri nevrotici, sussulti isterici, quel modo di quasi piangere cantando costituivano un vocabolario e una grammatica di grande effetto.
Buckley cominciava le canzoni imbastendo un racconto, soppesando le parole, ma poi le parole perdevano significato e diventano semplice suono, e infine puro delirio. E, man mano che perdevano la loro qualità "terrena", diventavano anche la chiave per accedere a un "oltre", a un'altra dimensione, una dimensione di puro spirito.
Il canto non era che uno degli strumenti, comunque.
Buckley arrivò a impiegare un ensemble da camera (percussioni, tastiere, fiati) per i capolavori della maturità. Nella sua arte vocale confluivano lo spirutual, il gospel e le austere tecniche tibetane (forse la proposta più originale di fusione fra occidente e oriente), ma Buckley rielaborò le sue fonti fino a pervenire a uno stile unico e personale.
Il ritmo era altrettanto duttile, di volta in volta una pulsazione ossessiva che percuote la mente, oppure un lieve trepestio che guida il cuore nei suoi titanici sforzi, oppure un serrato "jazzato" che vibra senza pause colorando di una strana frenesia la fantasia sospesa ad altezze vertiginose, oppure ancora un gentile vento soul che si distende in dolci e impalpabili sottofondi naturali.
Dalla fusione fra tutti questi elementi rivoluzionari avevano origine canzoni che sono poesie malinconiche ambientate in un mondo devastato da una follia tanto fievole quanto immane.
Più che narrare Buckley si lanciava in deliri, in flussi di coscienza, in associazioni libere.
La narrazione si spegne e si riattizza, s'infiamma ed esplode, si placa e collassa, s'inalbera epica e s'affloscia moribonda. La sensazione e` davvero quella di un viaggio fra le stelle, ma e` anche quella di una seduta psicanalitica, di un viaggio dentro la coscienza squilibrata di un caso incurabile. La musica fotografa una psiche che si dibatte spasmodicamente in un torbido impasto di cupe emozioni primordiali, in bilico sul baratro del suicidio, e ogni tanto riaffiora, ancora dolorosamente viva, palpitante.
La colonna sonora di questo tormento interiore era uno splendido caos musicale.
Buckley aprì una nuova era per il canto d'autore, anche se all'epoca nessuno se ne accorse, neppure lui che si professò sempre figlio del rhythm and blues.
Da un lato le sue acrobazie canore coniarono un'arte onomatopeica modulata all'infinito. Dall'altro il suo genio naive architettò arrangiamenti sempre più complessi e "colti", esplorando rabdomanticamente filoni tanto diversi quali il free-jazz, la linea genealogica blues- spiritual- gospel- soul, la musica latino-americana, il primitivismo africano.
I capolavori di Buckley sono brani estesi che hanno poco in comune con la "canzone".
Lo svolgimento e` libero e non c'e` ritornello. La melodia viene smembrata e distorta, allungata in una struttura lenta e strisciante che e` l'equivalente di un sogno. "Lorca" e "Gypsy Woman " sono brani senza fine in cui Buckley spalanca le porte della percezione e irrompe in un vuoto siderale.
Il passo epico dei primi dischi diventa via via sempre piu` astratto. Il tono tragico, in sordina, rimarrà sempre lo stesso, ma si tingerà di colori sempre piu` grigi, sempre più depressi. L'incedere, a sua volta, diventerà sempre più convulso, istericamente conteso fra pause in cui tratteneva il fiato e rovesci febbrili di emozioni, come se il cantante fosse scosso da improvvise e atroci illuminazioni di un tremendo segreto o precipitasse a capofitto in abissali inferni esistenziali. La musica di Buckley inseguiva un'idea, non importa dove questa si spingesse. Spesso si limitava a precipitare, senza vedere il fondo, in un buio di pupille sbarrate e di mani protese, in un'orgia eterna di grida disperate e di lamenti raccapriccianti. Buckley vagava in quello spazio di infinito nulla alla ricerca forse, di un'idea che fosse anche di salvezza. La sua carriera fu un lungo incubo privato. Buckley passò la vita a inseguire i suoi fantasmi interiori in labirinti di suoni e per itinerari cosmici, ma si era perso fin dall'inizio, e ciò che fa grande la sua arte e` che non aveva speranza di ritrovarsi. Quello di Buckley fu un incubo durato una vita, l'incubo di un naufrago alla deriva, che verrà alla fine ucciso dall'orizzonte con cui discorreva giorno e notte.
Questo approccio onirico, visionario, allucinato alla musica era certamente imparentato con l'acid-rock californiano, scaturiva da una sottocultura della droga intesa come liberazione e catarsi; ma a quell'approccio propenso a sondare gli abissi della mente, Buckley aggiunse un elemento di introversione e introspezione che procedeva quasi in direzione opposta alle celebrazioni di estasi pubblica dell'acid-rock. Ciò non toglie che, assillato da un profondo malessere esistenziale, Buckley fosse un personaggio più universale di quanto volesse essere, ma per puro caso: Buckley era un menestrello paranoico del disagio esistenziale della sua generazione, un perdente emarginato nella società dei consumi, un missionario dell'anticonformismo intellettuale come lo erano stati i beatnik, succube e non protagonista della vita.
Buckley esprimeva l'insofferenza per i valori dell'"american way of life" nello stesso modo in cui l'avevano espressa i poeti beat e i pittori astratti.
Tim Buckley nacque a Washington nel 1947, crebbe a New York e si trasferì ancora bambino in California. Si formò nei locali folk di Los Angeles, mentre frequentava la high school insieme con l'apprendista poeta Larry Beckett e con l'apprendista bassista Jim Fielder.
A quindici anni suonava il banjo in un complesso folk, ma ammirava soprattutto la potenza vocale dei cantanti blues, la creatività del free-jazz e il potere espressivo di tanta world-music. Buckley, Beckett e Fielder formarono prima i Bohemians e poi gli Harlquin 3.
Esercitandosi a controllare il respiro e le corde vocali per ottenere la massima duttilità del canto (suo modello la grande Yma Sumac), Buckley scoprì la sua vera vocazione. Abbandonati gli studi e la moglie (frutto di una scappata dell'ultimo anno di high school), Buckley prese a esibirsi al "Troubadour", dove fece conoscenza con il chitarrista Lee Underwood.
Herb Cohen, il manager di Frank Zappa, lo scoperse che aveva appena diciotto anni, ma era già` un fenomeno, sia per la prodigiosa estensione vocale, sia per i diversi stili musicali che amalgamava nelle sue canzoni.
La sua personalità timida e sensibile, dolce e malinconica, schiva e modesta non si addiceva all'ambiente della musica rock. Buckley rimase sempre un ragazzo solitario. Scontava pero` l'isolamento con una massiccia dipendenza dalle droghe pesanti.
Buckley registrò il primo album, "Tim Buckley" , nell'arco di tre giorni nel 1966, (mentre nasceva suo figlio Jeff Buckley), circondato da uno stuolo di prestigiosi sessionmen reclutati da Cohen (Billy Mundi alla batteria, Van Dyke Parks alle tastiere, Jack Nitzsche per gli arrangiamenti d'archi, oltre a Underwood e Fielder).
Le canzoni sono tipiche dello stile dell'epoca, a metà strada fra Bob Dylan e la musica leggera. L'album si distingue dai tanti dell'epoca per un tono medio più fatalista e rassegnato.
La novità di maggior rilievo e` forse l'arrangiamento jazzato, e talvolta orchestrale.
Buckley ha 19 anni, e` incerto e titubante, soprattutto al cospetto dei più smaliziati collaboratori.
Gli riescono bene tenui bozzetti adolescenziali come "Valentine Melody" e "Song Of The Magician", ma la voce non ha modo di librarsi come "Song Slowly Song "lascia intuire.
Il secondo album," Goodbye And Hello "( 1967), fu ispirato "Blonde On Blonde" di Dylan, che Buckley, Fielder e Underwood passarono mesi ad ascoltare e imitare.
Ambizioso e pretenzioso come l'album di Dylan, l'album di Buckley non riesce a trovare lo stesso magico equilibrio, ma costituisce comunque un gigantesco balzo in avanti per l'autore.
Buckley, in particolare, riesce a meglio amalgamare gli strumenti (compresi percussioni e tastiere).
Forse anche per l'influenza del produttore di turno, che volle dare all'album un sound rinascimentale, Buckley ricorre a una strumentazione che ha del sontuoso per un folksinger.
Il talento versatile ed eccentrico di Buckley ha comunque modo di emergere pienamente in canzoni toccanti che oscillano fra il lirismo favolistico alla Leonard Cohen, le pose dylaniane di "Je Accuse", e uno spleen di fragile bellezza.
Questo disco e` una raccolta di poesie sull'individuo che si presenta inerme al cospetto della pazzia del mondo.
Buckley rivelò la sua immensa carica emotiva con "Happy Sad "(1968).
Da qui Buckley comincia a essere se stesso.
Al confronto di "Happy Sad", il successivo" Blue Afternoon "( 1969) e` meno album di gruppo e più album del cantante. La batteria prende il posto delle congas e l'ensemble e` più disciplinato (forse anche perché Buckley fece anche da produttore).
Il disco continua comunque la messa a punto di un folk-jazz comunicativo, raffinato e cesellato fino all'ultima nota. La forma canzone (il ritornello, il ritmo, i tre minuti, eccetera) non esiste più, ma al suo posto subentra una forma canzone d'autore che la rinnova senza indulgere in eccessivi sperimentalismi: il canto fluisce libero su un accompagnamento casuale fatto di punteggiature ritmiche e tocchi colorati. Le canzoni sono solitarie confessioni autobiografiche, sospese fra onirismo freudiano e trance psichedelica.
Dal folk-jazz si passa con "Lorca "( febbraio 1970) al "free-folk"."
Se gli album precedenti avevano comunque subito l'influenza dei collaboratori e/o del pubblico, "Lorca" e` un album scritto per se stesso.
Lasciati liberi Friedman e Miller, la strumentazione si arricchisce nella sezione delle tastiere. L'ensemble si compone ora di congas, chitarra, piano elettrico. Il sound e` scheletrico. L'assenza di un ritmo gli conferisce staticita` e imponenza, a immagine e somiglianza dell'eternità.
I brani, lunghi e tesi, labirinti sonori di infima depressione, sono percorsi da brividi stremanti, frutto di una tristezza che rovista baratri senza fondo; Buckley e` alla deriva in un coma cosciente. E` un pianto assoluto, senza ritorno.
"Starsailor "(novembre 1970), da molti considerato il suo capolavoro e uno dei massimi dischi di tutti i tempi, e` il punto d'arrivo della folk-jazz fusion di Tim Buckley. E` al tempo stesso il suo album più visionario, psicologico, astratto, psichedelico, pittorico e jazz.
Buckley e` ormai dotato di una perfetta padronanza di tutte le tonalita` della voce e mette a frutto la maturità raggiunta. Gli ingredienti principali del disco sono il jazz e la psichedelia, che gli conferiscono una carica di energia spasmodica, il coraggio necessario per compiere una traversata cosmica che e` in realtà una traversata della mente.
Buckley incise poi altri due dischi mediocri e scolastici di ottuso soul-rock, con tanto di coro e sezione d'archi.
"Sefronia "(1973) contiene ben poco degno di nota ,e" Look At The Fool"(1974) fa il verso al soul orchestrale di Al Green .
Tim Buckley mori` per overdose nell'estate del 1975 a Santa Monica.
Aveva 28 anni.
Lasciava un figlio che non l'aveva praticamente conosciuto, Jeff Buckley.
La critica rock non lo aveva apprezzato per nulla o lo aveva appena citato.
La "Encyclopedia", la "Storia" e l'"Album Guide" di Rolling Stone non gli dedicarono una sola riga, la "Penguin Encyclopedia" gli dedicò qualcheriga distratta.
"Starsailor "era stato recensito a pieni voti soltanto dalla rivista jazz "Downbeat" e (anni dopo) in Europa.
Postumi vedranno la luce diverse registrazioni di concerti dal vivo. Da evitare le antologie, che privilegiano quasi sempre gli album più banali.



sabato 11 giugno 2011

Bill Haley e quel brano che fece innamorare un'intera generazione


di Domenico Condò

- Era un pomeriggio caldo e afoso quando, in un sobborgo di Detroit, William e Maude Haley diedero alla luce il loro secondo genito, in un piccolo appartamento al secondo piano. Il bambino sarebbe stato chiamato William John Clifton Haley, ma un giorno lui sarebbe diventato il mito musicale conosciuto come Bill Haley che, con i suoi Comets, avrebbe entusiasmato un'intera generazione con l'effetto travolgente del suo "sound" e la gloria della sua musica.

All'età di tredici anni Bill ottenne in regalo dal padre la sua prima chitarra reale, seppur di seconda mano, ma per un eccitato tredicenne era un tesoro inestimabile, da momento che si trattava del suo primo approccio verso un mondo, quello della musica, ancora "ignoto" e tutto da scoprire ma che con gli anni lo consacrerà tra le leggende assolute.
Suo padre, colpito da questa travolgente passione del figlio, gli insegnò a suonare gli accordi di base e le note a orecchio, e quel bambino seguiva alla lettera le indicazioni del padre, con uno spirito tenace ed un desiderio di apprendere quasi "insolito" per un tredicenne allle prime armi. Ben presto si rese conto che aveva il talento di suo padre e l'orecchio per la musica.

All'età di 18 anni Haley era diventato un vero e proprio cantante country, sfoggiava nelle esibizioni un bianco cappello da dieci galloni, un paio di stivali western fantasia e un vestito da cowboy. La sua carriera però fu l'epitome della mediocrità e per primo Bill aveva capito che di questo passo non avrebbe potuto continuare per molto, tanto che stava meditando di abbandonare il mondo dello spettacolo e quei sogni cullati sin dalla sua prima infanzia, per dedicarsi ad un lavoro stabile e duraturo. Nessuno in quel momento avrebbe puntato un soldo sull'avvenire di quel ragazzotto, che divenne disc-jokey per arrotondare le misere entrate ricavate dalle sue esibizioni.
Passato questo breve periodo di delusione, in cui arrivò persino a dubitare delle sue effettive capacità, Bill cominciò a sviluppare alcune delle sue ambizioni sopite, con un nuovo e rinnovato senso di fiducia. A venticinque anni si accorse che i cantanti come lui avevano sbagliato tutto: i ragazzi non volevano piu` quella musica noiosa, volevano il ritmo, e parlando fra loro usavano un linguaggio ben diverso da quello delle canzoni country.

I tempi stavano maturando e questo Bill lo comprese perfettamente. I giovani non aspettavano altro che di rompere definitivamente con "il vecchio" e premevano per identificarsi in un nuovo genere musicale che potesse esprimere il loro desiderio di ribellione contro il lavoro, contro l'autoritarismo, contro la moralità bigotta, contro la realtà stessa. E Haley ebbe allora due geniali idee: sfruttare il ritmo del blues che avrebbe consentito ai ragazzi di accompagnarlo ballando e battendo le mani e intitolare i brani con frasi del loro gergo. Bill aveva preso a cantare il suo "rock and roll" impugnando la bandiera dell'anticonformismo, percuotendo le corde della chitarra con veemenza, e da quel momento la chitarra non sarebbe mai piu` stata lo stesso strumento.

Poche rivoluzioni furono piu` rapide, totali, globali. Milioni di giovani vennero elettrizzati da quel nuovo stile così profano e vibrante, e vedevano in esso un tentativo di fuga dalla vita monotona di tutti i giorni. E Haley non mancò mai di curare il lato esuberante dei suoi testi, il piglio scanzonato e irridente. Al di la` del fatto di aver creato dei brani stupefacenti a cui i posteri attingono a piene mani, per lo stacco netto rispetto all'etica del country rappresentato dal suo modo di far musica lo si deve considerare il primo grande musicista del rock.

Bill ribattezzò il suo gruppo "The Comets" ed ebbe il primo successo nel 1953 con "Crazy Man Crazy" ma il vero "archetipo" di tutte le canzoni rock and roll del periodo fu "Rock Around The Clock" che fu la prima canzone rock ad essere utilizzata in una colonna sonora cinematografica. Bill Haley aveva quasi quarant'anni all'epoca ed era quindi il più improbabile dei "teen idol". Quella canzone sembrò sin da subito un inno rivoluzionario e fu proprio quella canzone a trasformare il rock'n'roll in un fenomeno nazionale che istituì un nuovo modello adolescenziale: il delinquente ribelle, solitario e anticonformista.

Nel corso degli anni, molti scrittori hanno cercato di minimizzare il suo impatto sulla musica popolare, ma i fatti parlano da soli e "Rock Around the Clock" è stato uno dei, se non il più influente singolo della seconda metà del 20esimo secolo; per molti versi è stato il perfetto brano Rock and Roll, e non era altro che, "semplicemente", il genere giusto al momento giusto. E il mondo è stato rock in da allora. Bill Haley ha cambiato il corso della musica americana ed a distanza di 57 anni esatti dalla pubblicazione di "Rock Around the Clock" molti ritengono che se non ci fosse stata questa canzone non ci sarebbe stato tutto quel che c'è stato, aprendo un incredibile vaso di Pandora per tutti gli artisti che in seguito si sono cimentati in questo genere, tra i quali quello che è stato un autetico idolo dei teenagers e un mito del rock'n'roll, tale Elvis Presley.


Ecco il video di "Rock Around the Clock" di Bill Hale
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venerdì 10 giugno 2011

Cindy Lauper nel film ispirato a Jim Morrison



La cantante Cindy Lauper comparirà in The Last Beat (L’ultimo battito), pellicola ispirata alla vita del leader dei Doors Jim Morrison. Nel film, scritto e diretto da Robert Saitzyk, la cantante si calerà nei panni di Bebe Markham. The Last Beat verrà prodotto in concomitanza col 40esimo anniversario della morte di Morrison e bisserà la tattica promozionale utilizzata in precedenza da Oliver Stone che realizzò il suo biopic The Doors nel 1991, in occasione del ventesimo anniversario della morte del Re Lucertola.

Stavolta, però, non si tratterà di un biopic vero e proprio visto che il film narrerà la storia della rock star Jay Douglas e il triangolo sentimentale che coinvolge la sua compagna storica (personaggio ispirato a Pamela Courson) e una giovane contessa francese. The Last Beat, prodotto dalla Bohemia Group, verrà girato a Parigi a fine anno. Il cast include Shawn Andrews, l’attrice francese Virginie Ledoyen, Cameron Richardson e Seymour Cassel.

Di recente Cindy Lauper è comparsa nella commedia Dirty Movie e ha doppiato il cartoon Henry and Me.

di Giuseppe Ino

mercoledì 1 giugno 2011

"Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band": il capolavoro dei Beatles, quarantaquattro anni dopo


Di : intweetion


Ci vollero centoventinove giorni, circa settecento ore di registrazione (nello studio 2 della Emi) e venticinquemila sterline per realizzare il capolavoro. I Beatles lo fecero uscire il primo giugno del 1967: esattamente quarantaquattro anni fa. L’impatto nel mondo della cultura pop fu inimmaginabile. Paul McCartney voleva eguagliare “Pet Sounds” dei Beach Boys (che era stato composto per rivaleggiare con il loro precedente “Rubber Soul”): fu Brian Wilson invece a non riprendersi mai più del tutto dall’ascolto.

Le registrazioni erano iniziate il 24 novembre del 1966. La band era entrata in studio dopo un’estate intensa, in cui il viaggio americano e la celebre frase di Lennon (”I Beatles sono più famosi di Gesù”) avevano messo alla prova tutto l’entusiasmo accumulato con i risultati di “Revolver”. Una buona notizia riportò il buonumore: nessun limite agli orari di registrazione né al budget. Lo Studio 2 era a loro completa disposizione. Situazione perfetta per chi, come loro, era abituato a correre in sala d’incisione in qualsiasi momento per fermare su nastro le idee e - come accadeva spesso nel caso di McCartney - aggiungere il proprio ‘tocco’ a quelle altrui.

Volevano un concept. Un album che raccontasse Liverpool con gli occhi di un adolescente ormai adulto. C’erano già tre brani (più una serie di provini di Lennon che vennero inseriti in seguito). Perle del calibro di “When I’m Sixty-four”, “Strawberry Fields Forever” e “Penny Lane”. La EMI però fece la voce grossa: serviva un 45 giri e quindi “Strawberry Fields” e “Penny Lane” vennero ’sacrificate’ come singolo. Da lì iniziò l’avventura del Sergente Pepe: un mood lisergico (Lennon e Harrison sperimentavano già abbondantemente l’LSD) misto a quello di una nostalgica passeggiata per i luoghi dove erano cresciuti.

Il titolo nacque ispirandosi alle band statunitensi dell’epoca. Nomi fantasiosi, lunghissimi, ironici, che arrivavano da ‘mondi’ sconosciuti e immaginari. McCartney voleva che i Beatles si trasformassero almeno per un po’ in una di quelle bande di ottoni d’epoca vittoriana che tanto avevano influito sulla sua formazione. Fece ascoltare la title-track agli altri, superò le perplessità di Harrison e Lennon e accolse il contributo di Ringo Starr con “With a little help from my friends” che diventò subito la prima canzone in scaletta.



Difficile affrontare in così poco spazio la disamina di ogni brano. Ne sceglieremo uno per tutti, perché spiega bene cosa furono i Beatles di “Sgt. Pepper”, quali vette riuscirono a raggiungere. La canzone che chiude l’album è “A day in the life”: per molti (e per chi scrive) il punto massimo della loro produzione. Trentaquattro ore di registrazione, due linee melodiche (la coppia lavorava spesso così) distinte eppure complementari, una produzione eccelsa (George Martin diede fondo a tutta la sua sapienza), quel finale con il lungo accordo di pianoforte (erano in realtà quattro, suonati insieme dalla band e da Martin), il glissandoorchestrale dopo le strofe (”Voglio un suono da fine del mondo […] Un po’ alla 2001: Odissea nello spazio“, chiese Lennon) con novanta elementi e le partiture scritte una ad una (era il 10 febbraio e ci fu una festa in studio per celebrare la fine delle sovraincisioni), la sveglia che suona e il conteggio - non fu possibile cancellarlo o fu una scelta? - delle 24 battute lasciate ‘vuote’. Tutto si risolse in una incredibile concatenazione di eventi che portarono “A day in the life” ad essere il brano più complesso, affascinante (dalla storia della morte di un uomo in un incidente d’auto nel testo, nacque la famosa leggenda della ’scomparsa’ di Paul McCartney) e maestoso forse della Storia della musica pop tutta.

Quella copertina. Quanto è stato scritto su quel collage di volti e riferimenti? Jann Haworth e Peter Blake la assemblarono su suggerimento di McCartney e la resero il mito grafico che conosciamo. Una sorta di gigantesca ‘cameretta’ tappezzata con le immagini dei personaggi che avevano contraddistinto la formazione dei Fab Four. Albert Einstein, Marlon Brando, Karl Marx, Edgar Allan Poe, Sonny Liston, Lenny Bruce e persino il controverso (indovinate chi era un suo fan? Esatto, Lennon) Aleister Crowley. L’idea iniziale prevedeva di includere nella copertina (che per la prima volta si apriva a libro) vari gadget. Baffi finti e toppe di stoffa. I costi si rivelarono troppo alti e si decise di stampare gli oggetti su una pagina, che potevano poi essere ritagliati. Nessuna censura sui nomi, nonostante la EMI tremasse non poco all’idea di lasciare carta bianca. Alla fine vennero eliminati dalla lista solo Gandhi, Gesù Cristo e Adolf Hitler (oltre a quelli che avevano chiesto alti compensi per lo ’sfruttamento’ dell’immagine).

Cosa accadde poi? “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” arrivò - letteralmente -ovunque. Appena finito il missaggio, i Beatles ne ’spararono’ una copia in acetato dalle casse di un impianto in casa di Mama Cass Elliott in King’s Road. Spalancarono le finestre alle sei del mattino e la gente inizio ad affacciarsi. Nessuno protestò, molti applaudirono. Erano i Beatles ed erano parte della cultura britannica e della cultura di tutti: con un disco che fu “un momento determinante nella storia della civiltà occidentale” (Kenneth Tynan) come oggi, come sempre.

lunedì 4 aprile 2011

Quando Ferrara cantava “Yeah Yeah!” (Video)





Grazie all’abilità filologica di monsignor Luigi Castaldi, ecco a voi un Giuliano Ferrara d’annata, ma di quella davvero buona: al minuto 1.10 di La strada di Bob Dylan, documentario Rai su un’opera beat di Tito Schipa junior, lo vediamo cantare al microfono “Yeah Yeah!”, senza barba e baffi e infinitamente più magro.

mercoledì 9 febbraio 2011

Nico Cereghini racconta la storia della Vespa (Video)

La Vespa. Un mezzo al quale intere generazioni hanno legato ricordi e mille aneddoti. Dal simbolo dell'Italia che cresce e si muove a oggetto di culto e tendenza. Un mito che sulle sue ruotine carica più di mezzo secolo di storia
Qui sopra noi e le vespe,quanti ricordi!

martedì 8 febbraio 2011

Jules Verne, un falso scrittore per ragazzi



8 febbraio 2011 - Molti lo ricorderanno come Giulio Verne, una stravagante nazionalizzazione, che ha fatto sì che molti ragazzi siano cresciuti credendolo un autore italiano.

Jules-Giulio è nato nel 1828 a Nantes, città sulla Loira a pochi chilometri dall’oceano, esattamente oggi, 8 febbraio. Acque di terra e lo spazio infinito dell’Atlantico hanno, da sempre, cibato il suo sguardo. Il padre l’avrebbe voluto avvocato ma la perniciosa frequentazione con Alexandre Dumas, anche lui ribattezzato Alessandro(!), lo convinsero a dedicarsi all’attività letteraria.

Forse la Francia si è persa un avvocato ma si è ritrovata un genio assoluto dell’immaginazione applicata alla scienza.
Una fortuna per tutti.

Suo mentore fu, senza dubbio, Pierre Jules Hetzel, piccolo grande editore e geniale illustratore. A lui si debbono le interpretazioni disegnate di molti romanzi di Jules, raccolti in volumi titolati Voyages Extraordinaires.
Verne era affascinato dal viaggio di scoperta ma non s’avventurava mai in un racconto senza prima aver raccolto tutte le informazioni scientifiche disponibili. Un grande divulgatore diremmo oggi ma, forse più propriamente, il fantasioso librettista della ricerca pura. Opere intriganti nelle quali la creatività si fondeva con le scoperte più avanzate, dove il lettore dell’epoca ritrovava i solidi principi della scienza disciolti in avventure poco credibili eppure possibili.
20.000 sotto i mari” è il romanzo che lo consacra, con “Il giro del mondo in 80 giorni” prende per mano il lettore e lo accompagna nell’avventura a lui, Jules, più congeniale, “Viaggio al centro della terra” è l’apoteosi romanzata della curiosità che sconfigge le paure claustrofobiche, “Dalla terra alla luna” è la sua opera più citata a far data dal 20 luglio 1969, quando l’uomo mise piede davvero sulla superficie lunare.

Da anni è considerato l’inventore della “fantascienza” ma gli rende maggior merito uscire dal neologismo e parlare di un autore con la sfrenata fantasia di un bambino e la pacata consapevolezza che la scienza renderà tutto, o quasi, possibile.
Eppure, una delle opere più meritorie di Verne, che divenne un libro pubblicato nel 1882, è dedicata a Cristoforo Colombo. Lo descrisse, è vero, come un eroe epico ma non tralasciò di studiare sui documenti originali e sulle riproduzioni di lettere e dispacci dello stesso Colombo nonché sul diario, andato perduto e riscritto da monsignor Della Casa, del navigatore genovese. Il fascino “dell’avventura delle avventure” e del suo interprete filtrato dal quotidiano realismo delle prove scritte. Come sempre.
Morì male, a 77 anni, quasi cieco e inchiodato, ironia della sorte, su una carrozzella alla quale fu costretto da un nipote demente che lo aveva gambizzato.

James Dean, il mito della gioventù bruciata

L'ANNIVERSARIO. Una delle icone ribelli del secolo scorso. Berlino gli ha dedicato una mostra. Oggi avrebbe compiuto 80 anni ma morì che ne aveva appena 24 e tre film alle spalle. Ne era uscito solo uno, ma bastò a consacrarlo

Se il destino non l'avesse aspettato alle 17.49 del 30 settembre 1955 all'incrocio tra la Route 41 e la 46 a Cholame in California, oggi James Dean avrebbe compiuto 80 anni. La sua Porsche Rs Spyder 550 metallizzata, che lui aveva ribattezzato «Little Bastard», piccola bastarda, si scontrò con una Ford guidata da uno studente di 23 anni, Donald Turnipseed. Un quarto d'ora prima Jimmy era stato fermato da una pattuglia della polizia per guida pericolosa ed eccesso di velocità. Multato di venti dollari, era ripartito per Salinas, dove voleva seguire una corsa automobilistica. Non ci giunse, perché la Ford gli tagliò strada. E pensare che non correva nemmeno troppo, 55 miglia, 90 km orari, come rilevarono gli agenti. Morì durante il trasporto all'ospedale. Aveva 24 anni. E tre soli film alle spalle, ma che l'avrebbero consegnato al mito, facendolo diventare una delle icone ribelli del secolo breve.
In realtà, in quel momento, di film ne era uscito appena uno, nella primavera precedente, La Valle dell'Eden, di Elia Kazan. La sua tragica fine funzionò – cinicamente - da lancio per il secondo, Gioventù bruciata di Nicholas Ray, mandato in sala nemmeno un mese dopo, il 27 ottobre. Mentre il terzo, Il gigante di George Stevens, che era ancora in lavorazione, venne completato con una controfigura e messo in circolazione un anno dopo, quasi in coincidenza con l'anniversario della morte.
In tutti e tre i film Dean interpretava ruoli di giovani tormentati, ipersensibili, nevrotici, introversi, infelici, incompresi, divorati da un'inspiegabile inquietudine interiore che li porta verso l'autodistruzione. Personaggi che fecero di lui immediatamente un mito in cui, negli anni delle ansie create dalla Guerra Fredda e dalle ossessioni atomiche, la gioventù americana si rispecchiava. A quella generazione andavano stretti i modelli dell'era precedente. Sono gli anni in cui esplode il rock'n'roll con Chuck Berry, delle bande dei motociclisti che attraversano l'America, delle gang giovanili che si sfidano nelle periferie della grande città. Sono gli anni di altri film ribellistici, oltre alla trilogia di Dean, come Il seme della violenza di Richard Brooks (che nel 1955 lanciò Rock around the clock), Il selvaggio di Laszlo Benedeck con Marlon Brando, del musical West Side Story (la prima fu il 26 settembre 1957 e poi divenne un celeberrimo film nel 1961 con la regia di Jerome Robbins e Robert Wise).
Dean, come nel 1982 raccontò splendidamente Robert Altman nel film Jimmy Dean, Jimmy Dean, tratto da una commedia di Ed Graczyk, divenne il catalizzatore di speranze, sogni, illusioni, frustrazioni, aspirazioni irrealizzabili dei ventenni degli anni Cinquanta.
Se il cinema creò la sua icona, a conservarla ci pensò la fotografia, di cui lo stesso Dean era appassionato (fu lui a «contagiare» Dennis Hopper sul set di Gioventù bruciata). Gli scatti di Dennis Stock, Phil Stern e Roy Schatt, a partire da quelli famosissimi in cui cammina in mezzo a una strada, il primo con la cicca in bocca, le mani in tasca ma con i pollici fuori, il biondo ciuffo ribelle, gli abiti largi e spiegazzati (di Schatt), il secondo sempre con le mani in tasca, ma del cappotto, e la sigaretta in bocca, sotto la pioggia, con l'ombra che si proietta davanti a lui sul fondo stradale bagnato quasi come una premonizione dell'imminente destino fatale (di Stock), per oltre mezzo secolo sono entrati nelle stanze, nei bar, nei ritrovi giovanili sotto forma di poster, di specchio, di foto che tapezzano e ricamano le pareti.
E a queste foto il museo The Kennedys di Berlino, per celebrare l'ottantesimo anno della nascita di Dean, ha ora dedicato una mostra, aperta ancora sino a fine settimana. In 15 fotografie, alcune delle quali profondamente ancorate nella memoria collettiva, è illustrato il segreto del fascino del «Dean Style». Quello che lo ha fatto entrare tra le grandi icone del Novecento, accanto a Marilyn Monroe, Jim Morrison, John Lennon, eroi di un'inquietudine mai sopita e che si rilancia di generazione in generazione. Quello che fece a dire di lui ad Andy Wharol che era «l'anima malata e bella del nostro tempo».

lunedì 7 febbraio 2011

Targa Florio: un video dell'edizione rally del 1982








La versione rally prosegue, con formula diversa, la tradizione della Targa Florio, una sfida che ha lasciato il segno nella storia dell’automobilismo. Per gli appassionati le edizioni più belle restano però quelle dell’epoca romantica, quando in Sicilia si confrontavano i migliori piloti al volante delle più belle auto da corsa.

Il tourbillon di emozioni di quegli anni si è ritagliato uno spazio nel cuore di ogni sportivo, guadagnando un posto per l’eternità. Non è difficile capirne le ragioni, vista la grandezza della prova. Innumerevoli e praticamente impossibili da riportare gli episodi di grandi battaglie e di aspri confronti sulle strade madonite. Riduttivo sarebbe riferirne solo alcuni: il rischio è quello di far torto a tanti altri, pure meritevoli.

Oggi la tradizione continua con il rally, di cui ammiriamo un video relativo all’edizione del 1982, vinta da Tonino Tognana su Ferrari 308 Gtb. L’anno prima era toccato alla vettura gemella di Jean-Claude Andruet. Nel cortometraggio manca l’audio, ma le immagini che scorrono bastano ad entrare nel cuore. Buona visione.

domenica 30 gennaio 2011

'BEATi quegli anni', al Casalinuovo una due giorni dedicata alla beat generation



Le atmosfere degli anni della ''beat generation', i riflessi di quanto accadeva nel mondo culturale e giovanile sulla nostra città, attraverso immagini, oggetti e testimonianze di un periodo ricco di fermenti artistici, anche a Catanzaro. E' '
'BEATi quegli anni', la due giorni di mostre, musica e incontri sulla memoria beat della città, che si terrà all'auditorium Casalinuovo, realizzata dai suoi stessi protagonisti grazie alla partecipazione dell'Assessorato alla Cultura del Comune di Catanzaro. Si è cominciato ieri con l'apertura dell'esposizione ''La bottega di Lawrence', contenitore di editoria, vinile, manifesti oggettistica, strumenti sonori, immagini ed altri reperti tutti originali del periodo. Oggi, invece, alle ore 17.30, sempre al Casalinuovo, si svolgerà una conversazione incentrata sul tema ''Beat... Dagli albori del sogno al tramonto del mito'. nel corso dell'incontro sono previsti, tra gli altri, gli interventi dell'assessore alla Cultura Antonio Argirò, di Piergiorgio Caruso, di Sergio Dragone, Nando Righini e altre personalità del mondo politico e culturale della città. Grande chiusura, poi, alle 20.30 con il concerto dal vivo di Ulisse e Le Ombre, lo storico gruppo catanzarese capitanato da Pino Ranieri (al secolo Ulisse) che ripercorrerà le tappe più salienti della sua esperienza iniziata proprio nel 1970 con il Disco per l'estate di quell'anno, "Se non avessi lei". Sul palco, insieme ad Ulisse, ci saranno Antonella Rocco (voce), Andrea Lanzellotti alla batteria, Andrea Guastella al basso, Domenico Ciambrini alle tastiere, Salvatore Ciambrini e Giuseppe Voci alle chitarre. 
"La Bottega di Lawrence" potrà essere visitata anche oggi, con i seguenti orari: dalle 10.00 alle 12.00 e dalle 16.00 alle 20.00. L'ingresso a tutte le manifestazioni previste dal programma ''BEATi quegli anni' è gratuito.

venerdì 28 gennaio 2011

Auto d'epoca. È a Bovegno la Chrysler 75 che fu di Al Capone



La Chrysler 75 del 1928 che fu di Al Capone oggi è a Bovegno, proprietà di Paolo Mazzoldi, mobiliere, appassionato d'auto d'epoca. La storia dell'auto del nemico pubblico n° 1 di Chicago passa proprio da due bresciani: Mazzoldi e Domenico Paterlini, già sindaco di Travagliato. Quest'ultimo, studente a Parma nel 1971, entrò in contatto con una signorina 85enne di Catania, Monica Fortunata, che possedeva tre auto d'epoca. Paterlini scelse la Chrysler per
400mila lire, pagabili in rate mensili di 50mila, sottratte alla «paghetta». L'auto fu portata in carrozzeria a Parma: un finestrino era bloccato e smontando la portiera venne trovata, intatta, una multa del 1930, comminata ad Alphonse Capone, a Chicago. Paterlini scrisse alla Chrysler ed ebbe conferma: la mastodontica vettura (25 quintali) era quella di Al. Il tutto fu certificato dal notaio Cuccia. Durante la guerra, un inglese infatuato della signorina Monica, fece sua l'auto di Al Capone ad un'asta in New York e, trasportatala a Catania, gliela lasciò. 
Paterlini, dopo anni, la mette in vendita alla Fiera di Padova: e Mazzoldi se ne innamora. Consulta i figli Cristian e Romina, ha la benedizione della moglie Giuliana e l'auto risale le aspre curve di Bovegno. Oltre che alle sfilate di bellezza (premiata più volte) la Chrysler potrà ospitare freschi sposi nel giorno delle nozze. Paolo Mazzoldi la lustra, la riporta a mirabile perfezione. Manca solo l'aquilante tappo della benzina. Cerca in Internet e trova l'originale in Michigan, dietro esborso di 800 dollari. E la Chrysler di Al Capone torna agli splendori degli Anni '20. Mazzoldi la tiene come un gioiello: «Un tempo - dice - era nera. Ora ha la carrozzeria color panna, la capote e il portabagagli grigio scuro. Era chiamata 75 perché all'epoca toccava le 75 miglia, ossia cento chilometri orari con i suoi 4000 cc di cilindrata. Una velocità sbalorditiva, allora, a prova d'inseguimenti».

martedì 25 gennaio 2011

Jaguar festeggia i 50 anni della E-Type


A Ginevra partono le celebrazioni per la regina delle sportive inglesi
Di Fabio Garmelli

15 marzo 1961: al Salone di Ginevra debutta laJaguar E-Type, la coupé inglese destinata a diventare l’icona dell’automobilismo sportivo britannico, con il suo lunghissimo cofano anteriore, l’abitacolo compatto e arrotondato in coda e una purezza di linee (opera di Malcolm Sayer) testimoniata dalla sua esposizione permanente al Museum of Modern Art (MoMA) di New York. Per celebrare i 50 anni della Jaguar E-Type la Casa britannica ha programmato una serie di iniziative speciali che partono proprio dalSalone di Ginevra 2011 (3-13 marzo), dove sarà allestita una zona dedicata alla storica vettura. I festeggiamenti proseguiranno nell’edizione 2011 del Goodwood’s Revival e dell’omonimo Festival of Speed (30 giugno-3 luglio), al Silverstone Classic (22-24 luglio) oltre che nel californiano Pebble Beach Concours d’Elegance (21 agosto) e durante la tre giorni in pista del Nurburgring Old Timer Grand Prix (12-14 agosto).

L’importanza della Jaguar E-Type, definita dallo stesso Enzo Ferrari come "L'auto più bella mai costruita”, è testimoniata anche dal successo riscosso presso i personaggi e le celebrità della sua epoca, come George Best, Brigitte Bardot, Tony Curtis e Steve McQueen, tutti clienti della “E”. Diventata simbolo della Swinging London degli Anni ‘60 assieme alla Mini, ai Beatles e alla minigonna di Mary Quant, la Jaguar E-Type ha saputo ammaliare i suoi contemporanei e affascinare i collezionisti di oggi, sempre in cerca di un esemplare in ottime condizioni dei 70.000 prodotti. Rimasta in produzione per 14 anni, la Jaguar E-Type è tuttora responsabile dello stile e delle linee arrotondate che caratterizzano le Jaguar moderne, a partire dalla Jaguar XK che ne rappresenta la discendente ideale. Oltre a questo la E-Type verrà ricordata per il suo 6 cilindri in linea da 269 CV che le permetteva di arrivare a 240 km/h e che la rendeva l’auto di serie più veloce al mondo, con un prezzo base di 2.256 sterline inferiore alla maggior parte delle concorrenti. Buon compleanno E-Type, eredità tangibile del fondatore Sir William Lyons!