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sabato 26 febbraio 2011
Abiti e accessori della Cinecittà anni Sessanta resuscitano per una sera
. Lodevole è stata l'iniziativa da parte di Atelier 1900 di curare, ieri, una serata-aperitivo denominata “Cinevogue”, svoltasi presso il Vox in via Sparano 15. In collaborazione con StudioUno -Associazione culturale di recente costituzione creata con l’obiettivo di favorire un avvicinamento delle nuove generazioni a quelle passate attraverso un metodo originale: la resurrezione di capi e accessori del periodo cinematico italiano-, l'evento è stato un vero e proprio tributo agli anni '60.
Una mostra eclettica in onore dei personaggi cinematografici di quel decennio celebrati sontuosamente attraverso una poliedrica esposizione dal sapore retrò carica di suggestioni, non solo visive, in bianconero e a tinte tenui. “Il decennio dei Sessanta rivive oggi attraverso musica e abbigliamento utilizzati a Cinecittà“, afferma forse un pò alticcio a seguito del generoso drinking, Davide, uno dei soci, che si fa chiamare con estrema e poco motivata riservatezza Ken Clark, come la piccola stella cinematografica dei generi western, mitologico e giallo-spionistico di importazione americana in auge quasi cinquant'anni fa.
Sembra non gli sia concesso trasmetterci altre informazioni –Ad esempio come e dove hanno reperito i tanti abiti e accessori- per ordine del suo socio in affari.
La moda come veicolo di interesse storico e collezionistico dunque. Tutto ciò a memoria e in onore del decennio in cui il cinema italiano parve segnare una svolta, favorita anche da nuove situazioni ideologiche e politiche, decretando la fase aurifera della produzione nazionale, autentico florilegio di nuovi autori che si sarebbero in seguito rivelati vette massime nel campo specifico anche a livello internazionale. Fu indiscutibilmente quel decennio a definire e connotare inedite tematiche, stili narrativi e geniali intuizioni forse mai superate. Da allora il Cinema è diventato ufficialmente mezzo di espressione artistica, informazione culturale e
comunicazione sociale.
Eppure, come attestano alcune locandine originali esibite ieri sera al Vox, negli anni '60 il cinema italiano non era solo quello d’autore per eccellenza. Non solo l'introspezione e l'esistenzialismo dei Federico Fellini, dei Pier Paolo Pasolini, o dei Michelangelo Antonioni e dei Luchino Visconti. Anche l'alba dorata dei cosiddetti B-movie, tornati alla ribalta più che altro per l'importanza ricoperta sul piano del costume nazionale, o dei “polizieschi all'italiana”, ribattezzati “poliziotteschi”, rappresentati in loco ieri dai manifesti dei classici “Operazione estremo oriente” o “Il commissario Pepe”.
Non a caso il nome dell'associazione culturale, StudioUno, deriva dallo storico programma Rai andato in onda in Italia dal 1961 al 1966 ed entrato nell'immaginario collettivo come prototipo dello spettacolo di intrattenimento leggero.
“Locandine cinematografiche rigorosamente 60s”, aveva dichiarato il presidente nel comunicato stampa che preannunciava la mostra; perciò decisamente fuori tema e grossolanamente poco attinenti, invece, sono apparse le copiose locandine appartenenti al filone “commedia sexy scollacciata” come “Sesso matto” o “La schiava io ce l'ho e tu no”, produzioni notoriamente del decennio successivo, gli incensurati '70.
Una nota stonata rispetto al leit motiv della serata in verità piacevolmente suonata assieme al DJ Set dalle atmosfere patinate in perfetta sintonia con le evocative pellicole datate, proiettate attraverso il Super 8. Il tutto appariva una ricercata esaltazione dal gusto vintage del modernariato esposto composto da accessori quali occhiali, scarpe, telefoni, lampade, televisori e radio, per l'occasione azzecatissimi complementi d'arredo dei capi ispirati alla Cinecittà degli anni '60. Innovativo anche l'aspetto commerciale dell'associazione StudioUno. I soci hanno raccolto una mastodontica collezione di abiti sartoriali italiani datati 1967-1972. L'accertato utilizzo di tali capi nel cinema italiano dell’epoca, permette di poter ricreare spettacoli e ambientazioni legate al suddetto periodo in occasione di rappresentazioni teatrali, fiction, sfilate e party esclusivi a tema ambientati nell'epoca su esposta. Un modo per inventarsi un business che sia in grado di coniugare sapientemente passione e bilancio. L'associazione StudioUno ha sede in Via Francesco Pepe 45 a Bari Carbonara.
di Luigi Fallacara
martedì 8 febbraio 2011
L'anno in cui la musicassetta fu espulsa dalla Highway 61
E' una non-notizia, nel senso che ne eravamo già tutti al corrente. Basta guardarsi intorno, senza volare a Detroit. Negli scorsi anni, dopo aver abbandonato gli scaffali dei negozi di dischi, le musicassette sono rapidamente scomparse anche dalle plance di qualsiasi veicolo su quattro ruote, persino dai più spartani e proletari. Sostituite dal lettore cd, prima. Dalla porta USB, più di recente.
E non c'è da stupirsene. Le memorie magnetiche - almeno quelle per il mercato di massa - sono un ricordo dell'ultimo spicchio di ventesimo secolo. Tutte quelle videocassette... quelle musicassette... persino quei floppy disc protagonisti della prima rivoluzione informatica. Scomparsi come lacrime nella pioggia digitale. Così come, ancora più celermente, stanno svanendo formati ben più giovani (pensiamo al noleggio DVD, eliminato dal paniere Istat per far spazio all'iPad).
"Nel ventunesimo secolo, milioni di guidatori sono ancora legati alle loro collezioni di cassette, dalle compilation confezionate domesticamente agli album acquistati nei negozi", scrive il New York Times. Può darsi. Ma è vero che altrettanti milioni di guidatori, e forse ancora di più, oggi sono ormai passati ad altri canali di fruizione. I cd. I cd caricati di MP3. Le chiavette USB. Gli iPod. Nuove tipologie di radio, spesso legate a filo doppio con Internet (in America è immensa la galassiaPandora, ormai vicina alla quotazione in borsa, di cui da quaggiù si vede solo qualche flebile e distante luccichìo).
Esistono poi anche strane forme ibride, che stringono in una liaison intergenerazionale tradizione e modernità. Chi scrive guida una vecchia Punto, con autoradio ancora dotata di sportellino pieghevole. Ed utilizza proprio quello, assieme a un surrogato di musicassetta e a un cavetto, per ascoltare un iPod di ultima generazione.
La qualità è quella che è: il rumore di quel finto nastro che gira, mescolato agli MP3 già tutt'altro che hi-fi, spesso dà fastidio. Ma a volte, sulla strada giusta, riesce ancora a risvegliare ricordi di vecchie e ruspanti autoradio, pronte ad ingurgitare chilometri di nastro e a restituirteli sotto forma di sogni di rock'n'roll. Frammenti di ventesimo secolo, appunto. Le cassette vere e tutto il loro carico emozionale, da molti anni, riposano in uno scatolone in cantina.:(((
di Luca Castelli
giovedì 3 febbraio 2011
Anni '60, la nostalgia fa clic
Tornano ad accendersi sensazioni e umori del passato sfogliando le 80 foto in bianco e nero, che vanno dal 1964 al 1969, racchiuse nel volume "Anni felici" (Postcart) di Mario Orfini che sta arrivando in libreria. Produttore e regista (da "Porci con le ali" di Paolo Pietrangeli a "Il portaborse" di Daniele Luchetti), Orfini è stato uno dei più brillanti fotografi di reportage degli anni Sessanta: fotografava soprattutto per "L'espresso", ancora formato lenzuolo, accompagnando Camilla Cederna al Giro d'Italia o a intervistare Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo, documentando l'esplosione della cultura beat e la contestazione giovanile dal primo raduno nazionale dei "capelluti"- ossia i capelloni - vicino Novara nel 1966 alle assemblee degli studenti all'università di Milano, contro la riforma Gui. Erano "anni felici" quegli anni dell'Arcobaleno, come li chiama il giornalista Mario Nicolao nell'introduzione, in cui tutti erano interessati a tutto: c'era una giostra che girava vorticosamente, il nuovo arrivava da ogni direzione e sembrava davvero che il convergere di queste spinte creasse un'avanzata collettiva inarrestabile.
All'epoca Mario Orfini era un ragazzo arrivato da Chieti, Abruzzo, a Milano, dove si arrangiava facendo il correttore di bozze per una casa editrice. Un giorno lo licenziano ma - le cose al tempo correvano veloci - lui decide di rifarsi offrendo una bella cenetta al suo coinquilino. Che si chiama Mario Dondero, ed è un fotografo e ritrattista già affermato. Sarà il suo maestro: Dondero (oggi una leggenda vivente, in Italia e all'estero) presta a Orfini la sua preziosa Leica, lo porta in giro per Brera e il Bar Giamaica, il famoso caffè raccontato da Luciano Bianciardi ne "La vita agra", gli presenta un altro grande mago dell'obiettivo, Ugo Mulas. Adesso Orfini è pronto per gettarsi nella mischia.
Nel libro, copertina cartonata black con un'euforica Caselli in casco biondo d'ordinanza, le foto in movimento restituiscono con euforia il clima di quegli anni. Ecco il free jazz di Steve Lacy, Charles Mingus e John Coltrane a Milano e l'austera Juliette Gréco, musa esistenzialista dei cantautori nostrani (dopo esserlo stata di Sartre e Camus). Allora era casa Feltrinelli, in via Andegari, il salotto letterario più in voga di Milano, e Orfini ritrae Inge e Giangiacomo che ricevono con tutti gli onori Jack Kerouac e James Baldwin.
C'è un ritratto sorprendente di Salvatore Quasimodo, premio Nobel per la letteratura, quasi del tutto nero. Unico lampo, quello dell'accendino con cui il Maestro si accende la sigaretta. Dal glamour dello spettacolo l'obiettivo si allarga poi ai primi fermenti studenteschi, universitari con facce e abiti da cinquantenni occupano aule armati di ciclostile e brandine militari. Ma dietro l'angolo c'è la minigonna, i colori, la fantasia e la libertà delle ragazze che si scatenano in massa nello shake e nel twist. E ci sono Pier Paolo Pasolini, Gian Maria Volontè, Jean Luc Godard. Il bello è appena cominciato.
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