lunedì 29 agosto 2011

29 agosto 1966: quando i Beatles suonarono per l'ultima volta dal vivo al "Candlestick Park" di San Francisco


 da intweetion

Sembrò che quella sarebbe potuta essere l’ultima volta, ma non ne sono stato sicuro al cento per cento finché non siamo tornati a Londra. John voleva smettere più degli altri. Disse che ne aveva avuto abbastanza.

A parlare è Ringo Starr, l’argomento in questione è quel famoso 29 agosto del 1966 in cui iBeatles suonarono per l’ultima volta dal vivo al “Candlestick Park” di San Francisco. Undici canzoni, poco più di mezz’ora di concerto (la registrazione che McCartney aveva chiesto al loro ufficio stampa, tagliò l’ultima canzone perché Tony Barrow dimenticò di girare il nastro), le Ronnettes di Phil Spector fra gli opening-act e, soprattutto, una telecamera sul palco. Nonostante le parole di Ringo (probabilmente ottimista fino all’ultimo), gli altri tre Beatles sapevano che quella sarebbe stata l’ultima volta e volevano documentarla (Harrisoncommentò l’evento esclamando: “Sarà un tale sollievo… non dover avere più a che fare con tutta questa follia… E’ stata una decisione unanime.”)

Volendo essere precisi, i Fab Four suonarono ancora una volta dal vivo, il 30 gennaio di tre anni dopo, sul tetto degli uffici della Apple in Savile Row. Quei Beatles però erano una band a fine carriera, che voleva dare l’addio nel modo più spettacolare (e imitato). Il live al “Candlestick Park” fu invece l’inizio di una svolta per la loro storia: nata dall’esigenza di concentrarsi sulle nuove possibilità offerte dalla tecnologia in studio, mentre i mezzi live arrancavano.

Dopo circa 1400 date, i Beatles erano esausti. Stufi di sentire i loro riff di chitarra coperti dalle urla delle fan, penalizzati da un’amplificazione modesta e spesso gracchiante, stanchi di essere costantemente scortati dalla polizia, ma - soprattutto - di non poter trasferire on stage le incredibili soluzioni strumentali che iniziavano a sperimentare a Abbey Road. Forse per la prima volta nella loro carriera, Paul, John, George e Ringo erano più adulti e ‘maturi’ della media del loro pubblico: reagirono come solo i grandi sanno fare in queste occasioni.

Dissero basta ai concerti. Niente più apparizioni live. Non è un caso che, dopo aver suonato l’ultimo brano previsto in scaletta (”Long Tall Sally” di Little Richard), prima di abbandonare il palco, John Lennon accennò l’arpeggio iniziale di “In My Life”: splendida canzone scritta prevalentemente da McCartney che però conteneva un incredibile assolo (registrato daGeorge Martin) di piano velocizzato in studio, tanto da far sembrare lo strumento un clavicembalo. Dal vivo, sarebbe stato impossibile suonarlo e la band non aveva nessuna intenzione di accettare arrangiamenti più banali per sottostare a chi ancora vedeva in loro solo un complesso beat più in gamba degli altri.

Se oggi la dimensione live ci sembra importante, ma non così fondamentale, all’epoca le cose andavano molto diversamente. Da lì a poco, sarebbe stata inaugurata la stagione dei grandi festival, col ‘gran finale’ di “Woodstock” a chiudere l’epopea dei ’60s e i concerti (oltre alle numerose apparizioni televisive) avevano permesso ai quattro ragazzi di Liverpool di sbarcare degnamente negli USA anche se preceduti dalla bufera della celebre - e ampiamente contestata - affermazione di Lennon (”We’re more popular than Jesus now” -Ora siamo più famosi di Gesù).

Tornati in patria, ognuno prese strade diverse. John Lennon volò in Spagna per recitare in “How I Won The War”, George Harrison andò in India per studiare il sitar, Paul McCartney rimase a Londra per registrare la colonna sonora del film “The Family Way” e Ringo Starr si dedicò alla famiglia. Tre mesi dopo, il 24 novembre di quell’anno, i Fab Four erano tutti riuniti nuovamente negli studi di Abbey Road. C’era una nuova canzone su cui lavorare. Si sarebbe intitolata poi “Strawberry Fields Forever” e sarebbe diventata l’inizio di una nuova, grandiosa fase della loro carriera. Col senno di poi, quella di agosto non sembra più una scelta così azzardata…


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